Un racconto di Alex Vaudevillain.
Sangue. Terroso sapore nella sua bocca, terroso aroma giù per la sua gola stretta e lunga come un tunnel dell’orrore.
Aprì e richiuse i suoi occhi come fossero l’obiettivo di una macchina fotografica, mettendo a fuoco il manto di neve che affogava gli alberi intorno al suo corpo, per metà seppellito dal candore macchiato di sangue. Lo stesso che sentiva caldo tra le sue fauci. Fauci.
La lingua corse sull’arcata superiore dei suoi denti, accorgendosi per la prima volta della punta acuminata dei canini. Erano sempre stati così appuntiti? Si sentiva strano, troppo strano. Alzò le mani per osservarle, più bianche del solito. Le unghie presentavano una sfumatura cianotica. No, non era quello. Si portò le mani al petto. C’era qualcosa di diverso in quella distesa di carne. Si toccava, si palpava, non riusciva a comprendere. Sentì sotto le mani che la felpa era stata ridotta a brandelli e usò quelle fenditure per tastare la sua stessa pelle. Salì fino allo sterno, cercando il suo seno, la parte che in assoluto detestava di più di quel corpo a lungo odiato, ma non lo trovò. Al suo posto, due delicati pettorali.
Scese con le dita alla ricerca delle famigerate cicatrici della mastectomia, quell’intervento al quale avrebbe voluto sottoporsi ma che aveva sempre evitato a causa del suo terrore degli ospedali, ma non c’erano. Non riusciva a capire. Mesi di terapia ormonale per poi ritrovarsi improvvisamente senza quelle sacche di grasso.
Quale miracolo era mai questo? Singhiozzò, poi rise, sorpreso della sua stessa risata. La sua voce era cambiata, non era più il risolino infantile che gli era costato anni di discriminazioni nei circoli omosessuali, quella vocetta acuta e squittente che gli era valsa il soprannome di Jack la bambina. Adesso era profonda, cupa come il ringhio di un lupo prima dell’attacco. Fece come per sospirare, ma si rese conto solo e soltanto in quel momento di non star più respirando. I suoi polmoni non rispondevano, congelati come pietre nel suo petto, ma era vivo, non era mai stato più vivo di così.
Le dita quindi indugiarono al centro del torace. No, nessun battito. Provò a tastarsi il polso una, due, tre volte. Provò dietro le orecchie. Nada. Era definitivamente deceduto, defunto, morto. Jack Beauvoir era morto. Jack Beauvoir era vivo, risorto dal mondo dei morti ma non appartenente a quello dei vivi. Si mise a sedere sulla neve fresca, guardando il cielo vellutato e trapunto di stelle. Fece per incrociare le gambe ma si accorse di una protuberanza che non lasciava spazio all’immaginazione.
Se avesse potuto piangere di gioia lo avrebbe fatto, ma i morti non hanno lacrime. Si chiese a quel punto chi gli avesse fatto quell’immenso regalo. Chi avesse deciso che valeva la pena di porre fine a quelle miserabili sofferenze prima che ci provasse da solo e fallisse per l’ennesima volta. Forse un angelo aveva avuto misericordia di lui. Forse un demone aveva pensato che sarebbe stato sprecato all’Inferno, meglio lasciarlo sulla Terra ad annegare in una distesa nevosa in un bosco della Tatra. Ma chi? Uomo? Creatura? Non riusciva a darsi una risposta a rigor di logica.
I suoi sensi adesso amplificati però percepirono qualcosa. Un fruscio tra le foglie che sarebbe sfuggito a qualsiasi umano, ma non a lui. Non si mosse di un centimetro. Non temeva nulla. Un’ombra avanzò verso di lui. A prima vista sembrava umano, ma gli fu presto chiaro che lo era tanto quanto lui. Forse aveva trovato il suo benefattore. La chioma scarmigliata color del rame, la peluria leggera su un torso nudo e più bianco della neve, un volto cherubinico dal mento affilato e dal naso importante che incorniciava due occhi cremisi. Non c’erano dubbi: si trattava di un vampiro. Lo fissava, con quelle iridi carminio, mente avanzava verso di lui a piedi scalzi sulla neve, senza lasciare alcuna traccia.
Gli si parò di fronte e, con un inchino elegante, gli porse la mano dagli artigli appuntiti. La prese senza nemmeno rifletterci un istante e il vampiro sogghignò, quasi orgoglioso, poi lo tirò su in piedi.
«Tra le mie creature sei in assoluto la più bella», gli sussurrò all’orecchio. Non era un suono umano, quel vento di parole. Era come se uno strumento musicale avesse parlato. Le dita del vampiro sfiorarono il suo mento e lo avvicinarono pericolosamente al proprio tanto che, se fossero stati ancora umani, avrebbero potuto percepire l’uno il fiato dell’altro sul proprio volto.
«Sei pronto a dividere con me il resto della tua immortalità?», gli chiese. Pensò una frazione di secondo alla risposta da dare ma non gliene venne una migliore di un lungo, inesorabile e disperato bacio.
Nella sua vita era sempre stato considerato fragile, troppo delicato. Una perfetta signorina. Ricordava ancora le risate. No, non poteva essere così.
«Avrai sofferto molto in vita, a giudicare da come ti ho trovato». E in quel momento ricordò: il ponte. Il ponte dal quale si era lanciato. Il suo ultimo salto, poi il vuoto. Era la fine che aveva cercato. Era il dolore che non aveva mai smesso di accumularsi nei suoi trentatré anni. Perché era andata così? Perché era riuscito a sopravvivere alla sua fine? La morte lo aveva rifiutato per dargli una seconda vita.
«Che ne sai? Che ne puoi sapere di me? Tu non sai niente».
«Credi forse che io non sappia?», gli rise in faccia. «Credi forse di essere l’unico, Jack?». Alzò lo sguardo, i suoi occhi si fusero con quelli del suo creatore.
«Come conosci il mio nome?»
«Ti ho seguito. Ti ho tenuto d’occhio», gli sorrise. «Scelgo con cura le persone che trasformo. Il mio veleno… è speciale. Non ti rende soltanto immortale. Ti tramuta nella tua immagine interiore».
«Il mio corpo…»
«Non hai forse sempre desiderato questo, Jack? Non era questo il corpo che sognavi?»
«Sì», sorrise. «Tuttavia non credo di essere la persona più meritevole. Conosco altri che ne avrebbero avuto più bisogno».
«Più di te?», lo guardò incuriosito.
«Decisamente. Non c’è una maniera per far questo… ad altri?»
«Ho infuso il mio potere in te. Fanne buon uso».
«Davvero?»
C’era qualcosa che non lo convinceva del suo creatore. Sentiva che non era la più furba tra le idee quella di fidarsi, ma non aveva altra scelta.
«Prima però baciami», gli disse, avvicinandosi a lui, le mani sulle sue spalle. Jack trasalì. Il creatore gli strinse il volto tra le mani, con la delicatezza che possiedono solo gli angeli, poi lo prese per mano, portandolo tra gli alberi. Sorrise.
E fu il sorriso con il quale venne ritrovato, Jack Beauvoir, lanciatosi dal ponte dopo essersi arreso a una vita che non sentiva sua. Dalla sua tasca scivolò il telefono, ancora collegato a Spotify. Theatre des Vampires. Il suo ultimo sogno febbrile mentre le sinapsi del cervello smettevano di brillare. Gli ultimi impulsi mentre il suo cuore lasciava spazio al silenzio. Un uomo vestito di nero osservava muto la scena. Se solo fosse arrivato in tempo, forse, quel sangue innocente non sarebbe stato versato.
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